“E’ finita la democrazia e qualcuno non mi ha informato?” chiede con amara ironia la mamma di Fabio, un bambino autistico, prendendo la parola riguardo alla proibizione dell’utilizzo dell’orientamento analitico nel trattamento della sofferenza del figlio e come di lui anche di molti altri bambini. La domanda viene posta nel corso di uno dei preziosi momenti di dibattito che hanno scandito il ritmo delle giornate che hanno preso avvio Venerdì 24 Febbraio tramite la presentazione del volume “Qualcosa da dire al bambino autistico” (Borla, 2011) tenutasi presso la libreria Centofiori a Milano con interventi di A. Di Ciaccia, V. Baio, G. Spazzali, G. D’Arrigo, M. Focchi. I lavori sono proseguiti con la Discussione clinica, organizzata a Milano nei due giorni successivi dall’Istituto freudiano, dal titolo A proposito dell’autismo.

Il nome del compianto Martin Egge ha accompagnato questo incontro clinico avvolto in un’atmosfera appassionata e coinvolgente. E proprio le testimonianze dei genitori riportate nel suo intervento di apertura da Chiara Mangiarotti focalizzano dei ricordi che mostrano quest’uomo amabile e clinico preciso affrontare con il suo stile un reale che non fa sconti a nessuno e sono uno dei segni più tangibili dell’efficacia della sua pratica quotidiana anche come direttore terapeutico dell’ Antenna 112 e dell’Antennina di Venezia, due luoghi di vita per bambini e adolescenti autistici e psicotici.

Ma la nascita di questo luogo fu possibile perchè esso si è trovato sulla scia di filiazione provocata dall’esperienza inaugurale dell‘ Antenne 110 fondata in Belgio nel 1974 da Antonio Di Ciaccia.

E proprio la lezione magistrale di quest’ultimo ci ha mirabilmente aiutato a mettere in logica la teoria della clinica che rende conto della sua invenzione, nominata da Jacques-Alain Miller nel 1992 pratique-à-plusieurs, una modalità del lavoro in istituzione con bambini autistici e psicotici. Di Ciaccia parte riportando l’attenzione sul modo in cui ha preso forma in Italia il tentativo di mettere al bando la psicoanalisi, non solo lacaniana, nella cura dell’autismo, sia attraverso le linee guida decise dal Ministero della salute, sia nell’offensiva contro il lavoro dei lacaniani in tale ambito, la quale ha apertamente preso l’avvio sulla carta stampata, con parole a cui il documento pubblicato da la Repubblica grazie alla giornalista Luciana Sica e firmato da Stefano Bolognini, Simona Argentieri, Luigi Zoja e Antonio Di Ciaccia ha inteso replicare con forza (vedi su questo sito). Il fondatore dell’ Antenne sottolinea l’importanza di preservare l’intervento psicoanalitico per chi lo desidera, rilevando dunque, se posso dire, una sorta di errore del nodo tra il discorso politico e il discorso clinico, tra i quali il passaggio sembra talvolta inattuabile. Forse la questione è, parafrasando l’intervento di Lacan pronunciato a Milano nel ’72: può il discorso del padrone ministeriale essere un po’ meno stronzo? Sì, se quest’ultimo accettasse la circolazione tra i discorsi facendosi interrogare dalle sue stesse impasse.

Si tratta di impasse nella diagnosi ad esempio, se pensiamo che a essere autistici sono soggetti che vanno dall’essere completamente sommersi da un godimento irrefrenabile in cui la parola non trova posto a geni artistici alla Gleen Gould su cui proprio Martin Egge ha scritto un saggio puntuale e appassionato (Quodlibet, 2008).

Di Ciaccia precisa che nel caso più estremo di bambini che non parlano e si presentano con un complemento, un “organo supplementare” (che sia un’inseparabile tazza rossa da tenere in testa oppure gli umori del naso da cui non volersi pulire) il lavoro da compiere è di arrivare ad affiggere a tale oggetto uno statuto significante, facendo come se si trattasse di un significabile, conferendogli per l’appunto lo statuto di significante, affinché, accoppiato a un secondo significante (prelevato anch’esso dal bambino o prestato dall’adulto), venga, seppur minimamente, a rappresentare il soggetto. Come si vede, non è che il risvolto clinico dell’hegeliana uccisione della cosa, ossia di quell’ Aufhebung che permette di elevare alla dignità significante l’oggetto del bambino ponendolo in una dialettica, da intendersi come la messa in moto di un fort-da, per usare l’espressione che evoca il rocchetto freudiano, ossia di un’opposizione significante almeno minimale. In seguito al primo oggetto elevato allo statuto significante si deve arrivare a poter aggiungere un altro significante e così via… Si pensi a una nota di chitarra che Virginio Baio, con una “gentile forzatura” come la definisce Di Ciaccia, introduce come discontinuità nell’alternanza sonora proposta ripetitivamente da un bambino autistico. In quei momenti se è possibile rilevare una risposta da parte del ragazzino (nella situazione citata ci fu un sorriso) allora vuol dire che si è dato quantomeno un minimo di soggettivazione. Affinchè accada ciò è necessaria una presenza desiderante forte, tenendo conto che in istituzione non si attiva e non ha da attivarsi un transfert sul soggetto supposto sapere, quanto, piuttosto una sorta di transfert “familiare” ossia immaginario, e la pratiqueàplusieurs va proprio nella direzione di diluire e pluralizzare il transfert che è piuttosto un “farsi partner”. Un’istituzione per funzionare ha da rispondere alla struttura dell’inconscio e un esempio di questo è proprio la famiglia, che sia allargata o ristretta. Torna l’importanza di dare un posto al sapere dei genitori sui loro figli ed in primis di scollare il genitore della realtà dalla sua versione fantasmatica che è quella che, confondendo i registri, fa sì che in certe correnti di pensiero si accusino i genitori di freddezza o di essere la causa della sofferenza dei loro figli.

Prenderò in esame, tra i quattro casi presentati dall’Antenna 112 di Venezia, dal laboratorio Pio Pao di Ancona, dall’Antenna Beolchi di Cuggiono, quello lavorato dall’équipe del Buon Pastore di Bologna. Il caso di Natalia ci permettere di cogliere con precisione come le cosiddette stereotipie o fenomeni di ripetizione nella visione psichiatrica siano in realtà i mattoni possibili per effettuare delle costruzioni intese come articolazioni significanti più raffinate. Inizialmente gli operatori osservano da parte della ragazza picchiettamenti e ne ascoltano una voce alterata fino a provocare la reazione aggressiva dell’altro. In questo caso viene mostrato come una situazione continuativa di sofferenza reale possa portare a una non iscrizione del Nome del Padre. Natalia ha infatti vissuto, piccolissima, una condizione che può essere ricondotta all’ospitalismo descritto da Spitz.

Tornando al caso di Natalia, in effetti il bambino necessita che l’articolazione S1 ed S2 si instauri da prima possibile. La prima articolazione è lo scambio di sorrisi. Non basta l’amore. L’amore è già un effetto del fort-da, sottolinea Di Ciaccia. L’amore che risponde all’ S1-S2 è quello che consiste nel riconoscere il soggetto senza volere da lui niente in cambio. Natalia dà un input e se ne ricava, per così dire, un atelier, cioè lo si organizza appoggiandosi su di un significante proposto da lei oppure a partire da un forte desiderio dell’operatore a cui il bambino si possa agganciare per ottenere un’identificazione. Qui si tratta di un laboratorio sulle canzoni che le permette di coniugare la lingua materna (non italiana) con quelli che sono il desiderio e il sapere paterno sulla canzone in modo da  bordare l’oggetto voce. Tutto ciò può essere letto teoricamente grazie all’utilizzo che Di Ciaccia ha suggerito degli schemi di Lacan, rispetto al funzionamento del soggetto autistico, per il quale gli assi delle ascisse, la realtà (verso l’io ideale), e delle ordinate, il simbolo (verso l’ideale dell’io), dall’essere raggrumati in un punto potranno svolgersi tramite le articolazioni significanti, ad esempio, per Natalia, delle canzoni. In effetti Di Ciaccia, nella sua lezione, ha operato una ripresa dello schema R che è di per sé visto allo specchio, mostrando come si debba partire dalle coordinate del soggetto proposte nel Seminario V, ma chiarendoci come se ne debba considerare la disposizione  prespeculare, che è lasciata sottintesa da Lacan, e invece risulta essenziale per l’operatività clinica.

Tornando al caso di Natalia, per lei ha potuto attivarsi un trattamento della persecutorietà dell’oggetto sguardo allorchè l’educatore si sia mostrato docile alla sua richiesta di farle l’occhiolino, che diviene una sorta di occhio barrato. Dunque c’è umilmente da seguire il cammino del soggetto, creando le condizioni affinché quest’ultimo possa sempre più simbolizzare e mettere in catena.

Termino, chiedendo venia ai lettori, con un piccolo ricordo “clinico”. Giovane tirocinante universitaria di psicologia in un centro diurno socioeducativo, incontrai Manuel, ragazzo diciottenne diagnosticato dai servizi come autistico cosiddetto ad alto funzionamento. Manuel aveva gli occhi quasi costantemente fissi al cielo e muoveva spesso la testa da sinistra a destra e viceversa e alle richieste di eseguire dei compiti che gli erano poste dagli educatori, aggrappati nel tentativo di disangosciarsi al sapere offerto da una certa pedagogia dell’apprendimento, Manuel rispondeva costantemente “Sì”. Ma un giorno, scambiando una battuta con un altro ospite del centro, commentai senza guardarlo e accertandomi che lui ci potesse sentire: “Non preoccuparti Lara se si sono macchiate le camicie. Sarà Manuel a lavarle?”. Lo dissi proprio io che ero presa in giro per la mia goffaggine in quel tipo di mansioni domestiche. Fu allora che si udì la voce del ragazzo pronunciare un seppur flebile “No”. Al momento non capii la logica di ciò che era accaduto, ma festeggiai. Avevo riconosciuto a Manuel, accusato spesso di non lavarsi abbastanza, il diritto di scelta e, soprattutto, il mio desiderio di non occuparmi delle pulizie per interessarmi d’altro nella stanza aveva fornito un aggancio al desiderio di Manuel.

Oggi, illuminati da Lacan, è nostro compito dare voce a quel “No” che gli autistici soffrono di non riuscire a dire all’essere fatti oggetto del godimento medicalizzante di coloro che vogliono fuggire di fronte all’angoscia scatenata dal reale implacabile che questi soggetti ci mostrano sulla loro carne. Forse si tratta proprio di questo quando decliniamo nel sociale l’indicazione puntuale fornitaci da Virginio Baio: occorre essere docili con il soggetto e intrattabili con l’Altro. E tale posizione sarà possibile mantenerla non indietreggiando angosciati di fronte alla verità scomoda che l’autistico ci mostra, ossia che tutti al di là della particolare struttura abbiamo da confrontarci con l’autismo di quel godimento, che è singolare per ciascuno di noi.

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